venerdì 5 aprile 2019


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Una Provocazione Pastorale - Mons. Paolo Lojudice



Introduciamo la mattinata di studio con una piccola provocazione pastorale.

Per un percorso antropologico - Prof. Andrea Riccardi


Nel corso del primo decennio di questo secolo è avvenuta la transizione decisiva, che ha segnato la fine della prevalenza delle campagne che aveva accompagnato la storia umana.
La città contemporanea appare l'incarnazione della crescita del mondo, quella della tecnoscienza e della padronanza dell'uomo sulla vita; ma è anche la realtà dell'agglutinarsi problematico dei drammi della società.
Questo comporta, in paesi come l’Italia e la Francia, la fine del mondo delle campagne, quella civiltà agricola, in cui la Chiesa per millenni aveva un suo posto ben chiaro.
Le nuove città crescono generando con grande rapidità le periferie. La città globale è madre di periferie, specie nei paesi emergenti, dove regnano le costruzioni informali: slum, favelas, villas miseria, bidonville, banlieue, si gonfiano in maniera veloce e incontrollata. Quale il posto della Chiesa?
Bisogna apprendere a leggere la realtà della città. La città globale però sembra sia quasi refrattaria a una visione unitaria di se stessa. Forse questa città-mondo può sembrare quasi apocalittica, indurre al pessimismo, spingere in aree più tranquille e circoscritte. Si tratta di un mondo grande, terribile e contraddittorio ma anche di una realtà ricca di potenzialità che dobbiamo cogliere.

Per un percorso biblico - Mons. Ambrogio Spreafico


LA CITTA’, LUOGO DELL’UNITA’ E DELLA PACE


La città (Gerusalemme): il luogo dell’unità del popolo
Apocalisse, il libro della città
“La grande città”: quale profezia?
   L’annuncio profetico dell’Apocalisse, questa visione così luminosa e avvincente può dire qualcosa di concreto per il nostro tempo? Vorrei trarre una risposta in forma di conclusione con un accenno a quanto viene raccontato nel libro di Giona, un profeta inviato a una “grande città”. Come cambiare la città? E’ possibile anche per noi? Giona lo riteneva possibile – e ne vedremo il motivo -, ma non si volle assumere questo compito e fuggì per paura. Perché? Direi che la fuga di Giona è comprensibile e si potrebbe dire anche giustificabile. Nell’immaginario dell’Israele del tempo dopo l’esilio Ninive era il simbolo del nemico peggiore, responsabile della distruzione del Regno del Nord, simbolo di un grande impero ricco, conquistatore e violento, una potenza invincibile. Siamo nel periodo dopo l’esilio a Babilonia, tempo in cui Israele vive in un minuscolo territorio dentro il grande impero persiano in una cultura ellenista sempre più dominante nel Vicino Oriente Antico (siamo probabilmente nel IV secolo). Il libro di Giona infatti non è escluso che fosse originariamente la conclusione del Rotolo dei Dodici profeti, quelli che noi chiamiamo i Profeti Minori, come si potrebbe dedurre da una certa tradizione manoscritta rinvenuta a Qumran, perciò l’ultimo della raccolta dei libri profetici, i nebi’im in ebraico. Quindi il libro in qualche modo si pone come una domanda conclusiva sul valore della parola profetica, della parola di Dio, in un mondo altro, una cultura estranea, globale, pervasiva, che si muoveva tra la Persia e la Grecia in tutto il Vicino Oriente Antico e sui paesi delle sponde del Mediterraneo.
    Che cosa doveva fare Giona? Semplicemente annunciare la fine di quella città, svelare cioè il male che era in essa: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”.  Niente di nuovo per un profeta davanti a una città nemica. Ma c’era una differenza: Giona non si doveva limitare ad annunciare come altri profeti (vedi Nahum) la distruzione di Ninive, doveva andarci, parlare con la gente, percorrere tutta la città. Bella impresa! Sembra dirci il libro che Dio chieda che non basta denunciare, bisogna andare, incontrare, parlare, percorrere le strade degli uomini per fare venire il male alla luce, alla coscienza, perché ci possa essere una possibilità di cambiamento. Si legge: “Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. Infatti la reazione dei Niniviti è immediata: “Credettero in Dio e bandirono un digiuno, vestirono di sacco, grandi e piccoli”. Giona semplicemente fa quello che il Signore gli ha chiesto, percorre la città, ancora non è a metà, parla, e gli abitanti ascoltano. Questa è la prima risposta al male, alla violenza, all’ingiustizia: non rassegnarsi, non chiudersi nel pessimismo, nell’idea che tanto il mondo non può cambiare, non avere paura, accettare l’invito ad essere profeti non proclamando dogmi o verità, bensì andando in mezzo alla gente. Giona andò e la parola di Dio compì il miracolo del cambiamento di una realtà desinata alla fine.
   Di che cosa non si fidava Giona? In verità a Giona non importava della conversione di Ninive, anzi non aveva nessuna intenzione di renderla possibile. Come poteva sperare che un grande nemico potesse avere anche solo una possibilità di sopravvivere dopo tutto il male che aveva commesso? Non avevano già annunciato i profeti prima di lui che Dio l’avrebbe distrutta? Perché darsi ancora pena per quella grande e terribile città? E poi Giona ha un dubbio e un presentimento: non è che il Signore cambia idea e invece di distruggere la città, la salva?  In realtà è proprio questo il problema di Giona, che egli stesso esprime dopo che Dio ha cambiato la sua decisione a causa del cambiamento degli abitanti. “Giona ne provò grande dispiacere e se ne ebbe a male. Pregò il Signore: Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere”. L’eccesso di misericordia di Dio non piace neppure al profeta, non piace neppure a volta ai cristiani del nostro tempo. Ma la profezia di Gesù nella sinagoga di Nazareth fu chiara: il suo Vangelo, la sua buona notizia, quale era stata annunciata nel libro di Isaia, era per i poveri e gli ultimi e per questo non poteva che essere solo “grazia”. Gesù tronca infatti il versetto di Isaia, che concludeva dicendo “un giorno di vendetta per il nostro Dio”. La “grazia” la misericordia verso tutti, a partire dai poveri, è la profezia di Gesù anche per il nostro tempo, quello che Giona temeva, ma che si presentava essere ciò che il suo Dio avrebbe voluto perché la parola di Dio avesse ancora un valore e un senso in quel mondo globalizzato. Ecco almeno una parte della profezia dei cristiani anche per il nostro tempo, tempo di vendette, violenze fisiche e verbali, di odio e di inimicizie. C’è proprio bisogno di quella parola nelle nostre città perché sia possibile il cambiamento e un futuro dove si possa vivere insieme, gli uni con gli altri nell’unità e nella condivisione. 

Per un percorso teologico - Prof. Pasquale Bua

La città “sfida” la Chiesa
Appunti di “teologia urbana” a partire dal magistero di Francesco

La comunicazione propone un approccio teologico-pastorale alla città alla luce del magistero di papa Francesco. Il riferimento principale è rappresentato dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, cui si affiancano alcuni altri documenti del Pontefice, nonché due importanti relazioni tenute dal card. Jorge Mario Bergoglio negli anni del suo ministero episcopale a Buenos Aires (Noi come cittadini, noi come popolo, 2010; Dio nella città, 2011).
Dopo una succinta introduzione alla “teologia urbana” di Bergoglio-Francesco, attenta a rintracciarne le fonti ispiratrici, si sviluppano i seguenti aspetti:
-            Dio nella città: la città contemporanea costituisce un ambito privilegiato della presenza e della rivelazione di Dio nella storia; essa, pertanto, non è soltanto un locus, ma un vero e proprio locus theologicus, nel quale lo sguardo contemplativo del cristiano è chiamato a riconoscere i vestigia Dei.
-            La Chiesa nella città: sullo sfondo della dottrina del Concilio Vaticano II, che in Lumen gentium considera la città un’immagine della Chiesa e in Gaudium et spes ripropone il motivo agostiniano delle duo civitates, il Dio che abita la città chiede ai credenti di abitare a loro volta la città, non subendo la condizione di cittadini né vivendola a margine della loro scelta di fede, ma “scegliendo” di essere cittadini, per contribuire da credenti a edificare l’unico popolo di Dio che si “incarna” in tutti i popoli della terra.
-            La parrocchia nella città: la parrocchia ha storicamente rappresentato la forma privilegiata di localizzazione della Chiesa all’interno di una società a impronta marcatamente rurale; essa, pertanto, può oggi conservare la sua centralità pastorale solo a patto di de-ruralizzarsi, accettando di trasformare consuetudini, stili, orari, linguaggi e strutture, anche grazie a un rinnovato protagonismo laicale.
-     L’altro nella città: considerando che il tessuto urbano è spesso caratterizzato da individualismo, solitudine, disgregazione, diffidenza e paura, i progetti pastorali devono incaricarsi di promuovere la qualità relazionale della vita cittadina, configurando la Chiesa come “comunità di contrasto” attenta al grido del povero e dello straniero, nonché, di fronte all’attuale dissesto ecologico, della stessa natura.
-   Chiese nella città: l’espansione della metropoli contemporanea suscita il problema della costruzione di nuovi edifici di culto che rispondano al sentire spirituale dei cittadini; ciò esige che le chiese si strutturino, per un verso, come “santuari” e “oasi”, in grado di soddisfare l’inedito bisogno di spiritualità dell’uomo d’oggi; e, per un altro verso, come “case” e “ospedali”,  in grado di esprimere accoglienza e capacità di curare le “ferite”.

In sintesi dal Forum

Per continuare il cammino del Discernimento Pastorale
sulla presenza della Comunità Cristiana in Città
alla luce delle riflessione condivisa...